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La pagina del Vangelo che la Liturgia di questa domenica ci fa leggere (Mc.1,40-45), ci chiede una notevole attenzione: siamo di fronte ad una tipica pagina di Marco, essenziale nello stile narrativo, ricchissima di contenuti solo accennati e lasciati alla intelligenza del lettore da comprendere e da approfondire. Siamo di fronte ad una pagina tutta concentrata sulla figura di Gesù, non facile da capire, persino sconcertante, ma proprio per questo importante per il cammino di fede che Marco ci guida a compiere.
"Un lebbroso viene verso di Lui, supplicandolo e dicendogli: "Se vuoi, puoi rendermi puro". Il racconto di Marco comincia con il presentarci la figura di questo lebbroso che prende l'iniziativa, agisce, parla e si muoverà sino alla fine di testa propria non ascoltando ciò che Gesù gli dice. Non è di facile interpretazione questa figura che Marco propone: un esempio da imitare, o una condotta da condannare? Questa complessità si riflette nella diversità con cui le antiche tradizione del testo descrivono la reazione di Gesù di fronte alla domanda del lebbroso. Il testo che noi leggiamo dice: "e mosso a compassione." ma altri antichi manoscritti dicono: "essendo andato in collera." Gesù, dunque, di fronte al lebbroso si è commosso oppure si è adirato? Gli esperti di "critica del testo" affrontano la questione e, secondo le regole di questa scienza, tendono a privilegiare la lettura che noi scartiamo: "essendo andato in collera". Questa lettura troverebbe conferma dalla reazione di Gesù dopo l'azione di purificazione: "fremendo contro di lui, lo cacciò via subito". Perché, dunque, questo atteggiamento di Gesù? Certo, Marco ce lo presenta in modo non facilmente ed immediatamente riconducibile ad interpretazioni pie e devozionali. Presentandoci poi la realtà dei fatti, non ce ne dà l'interpretazione, lasciandola aperta alla sensibilità e all'intelligenza di ogni lettore: in questo modo Marco ci educa alla fede. Probabilmente, la reazione di Gesù dipende dall'atteggiamento del lebbroso che pretende che Lui lo liberi della situazione di separazione dagli altri. Nel lebbroso, che la Legge condanna alla separazione, possiamo vedere la situazione dell'uomo incapace di relazioni vere con gli altri, dell'uomo che non accetta il proprio limite e che pretende da Dio il superamento.
La chiave di interpretazione sta, dunque nella "preghiera" formulata dal lebbroso: "Se vuoi, puoi rendermi puro". Preghiera o pretesa? Affidamento a Dio o tentazione? L'invocazione del lebbroso è così simile a quella di Gesù nel Gethsemani: "Padre, ogni cosa ti è possibile. Allontana questo calice da me! Ma non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu!" Sono così simili le due invocazioni eppure tra di loro c'è un abisso! Quella di Gesù è una invocazione filiale, drammatica, rivolta al "Padre"; è un riconoscimento dell'onnipotenza di Dio, che rimane misteriosamente "altra" in rapporto all'invocazione così umana del "Figlio", che pure sa di poter dire tutto, con estrema libertà, al Padre; è un affidamento totale di sé alla volontà del Padre che il Figlio sa essere volontà di amore. Quella del lebbroso è invece una secca richiesta, nella perfetta logica umana: ha visto Gesù parlare e agire "con autorità" e quindi sa che "egli può", se può deve solo volerlo e perché non dovrebbe volerlo, Lui che sta sempre dalla parte dei deboli? Quello che il lebbroso vuole è solo un atto "potente", che rompa gli schemi, che faccia in modo che lui, persona emarginata per i suoi limiti, possa andare "a predicare molte cose e a divulgare la parola". Il lebbroso non ha capito che la "autorità" di Gesù è solo l'amore con cui Egli si abbassa per condividere la fragilità e renderla piena di vita, non per cancellarla ed esibire una umanità autosufficiente; non ha aperto a Gesù il suo cuore per poter lasciarsi amare da Lui e quindi la sua vita non è cambiata neppure quando Gesù lo ha purificato. Questo può spiegare la reazione adirata di Gesù (e quanto pedagogica anche per noi, oggi!) il quale tuttavia non rimane condizionato dalla incomprensione del lebbroso: Gesù, pure in collera, non viene meno al suo amore per lui, alla compassione per un uomo che vuole uscire dalla sua sofferenza.
Marco descrive la guarigione del lebbroso da parte di Gesù, con i suoi gesti e le sue parole: "stese la sua mano e lo toccò e disse: Lo voglio, sii purificato". L'eccezionalità del fatto è sottolineata dai due verbi: "stese la mano e lo toccò", che esprimono la partecipazione umana e la libertà di Gesù che non teme il contatto che avrebbe prodotto impurità: Gesù è libero; egli sa che l'impurità del lebbroso non può contaminare, mentre il suo amore è contagioso e può guarire.
Le parole che accompagnano i gesti sono estremamente sintetiche e di grande peso: "Lo voglio, sii purificato"; lette, non solo in relazione con il fatto narrato, esprimono la visione programmatica di Gesù. Egli vuole (è un imperativo) una umanità libera, non schiava di contaminazioni, di limitazioni, di emarginazioni, ben al di là di quanto gli uomini vogliano, ben oltre ciò che questo lebbroso vuole.
Così questa pagina evangelica mette sempre più in evidenza il contrasto tra la radicalità di Gesù e la fragile e impaurita limitatezza umana: Gesù vuole una umanità libera e realizzata e per questo ama l'umanità chiamata a credere per sperimentare l'amore.
Marco ci mostra Gesù che vuole la guarigione e la purificazione del lebbroso ma pure che, "fremendo contro di lui, lo scacciò via subito e gli disse: "Fa' attenzione! Non dire niente a nessuno, ma va' tu stesso a mostrarti al sacerdote.": in questo modo diventa evidente la preoccupazione pedagogica di Gesù. Pedagogico è anzitutto lo sdegno con cui Gesù reagisce, perché il lebbroso guardi dentro di sé e chiarisca a se stesso i motivi per cui sta agendo. Gesù ha provato compassione per lui, lo ha toccato, lo ha liberato dalla emarginazione: ormai non è più un ammalato che ha bisogno di cure ma una persona, soggetto delle proprie azioni. Gesù lo spinge a reimmergersi nel cerchio delle relazioni sociali ("vai, mostrati tu al sacerdote, offri.come testimonianza per loro"), lo vuole libero perché liberi gli altri. Deve mostrare che il suo corpo non è più segnato negativamente, e per questo ha bisogno di un riconoscimento istituzionale. Ma poi, deve tacere: Gesù non vuole pubblicità, non vuole che si confonda l'annuncio del "Vangelo" con l'entusiasmo, con la meraviglia suscitata dalla diffusione dei miracoli, non vuole che si confonda la fede in Lui con l'illusione di aver trovato la soluzione miracolistica dei propri problemi.
L'ambiguità che continua dall'inizio del racconto, qui raggiunge il culmine. "Ma quello, uscito, cominciò ad annunciare molte cose e a divulgare la parola". La pedagogia di Marco riguarda adesso l' "evangelizzatore": "comincia", con questo lebbroso sanato, il rischio di un grande equivoco, quello di scambiare l'evangelizzazione con il dire molte cose che, con la loro abbondanza, saturano lo spazio dell'ascolto e non lasciano a Gesù la possibilità di farsi sentire, o con il rumore dei mezzi di comunicazione che toglie lo spazio alla proclamazione del Vangelo.
In modo acuto, Marco avverte che l'iniziativa di quest'uomo, il suo affannarsi nell'annunciare molte cose, è di impedimento alla possibilità di Gesù di entrare e di manifestarsi nella città.
Il Vangelo parla a noi, oggi, assicurandoci che Gesù ci scuote, ci sveglia e nonostante le nostre ambiguità, continua a correggerci, perché ci ama e vuole che nella relazione vera con Lui troviamo la fonte della nostra autentica libertà.
Paolo Curtaz
Purificati
Ci sono delle esperienze o delle situazioni che ci isolano dagli altri, che ci fanno piombare in un non richiesto gruppo speciale, condannato ad essere marginalizzato. Come quando perdiamo una persona cara, come quando il dolore fisico irrompe nella nostra vita, come quando un fallimento affettivo resetta la nostra vita.
Allora ci sentiamo estranei alla vita e la gente ci sfugge. Di cosa parlare? Con chi? Chi vuole accanto a sé qualcuno che è stato azzannato dal demone della sofferenza? In quel caso, a volte, ci si avvicina a Dio. Solo a volte: più spesso nel dolore e nella solitudine la fede la si perde, altro che storie. Il lebbroso di oggi ne sa qualcosa.
Lebbroso! Lebbroso!
È una malattia della povertà, la lebbra. Devastante, inarrestabile, immonda, che ti consuma facendoti marcire. Anche Israele, come tutte le civiltà del passato, aveva capito bene la gravità della malattia e del contagio e imposto ai lebbrosi di stare alla larga dai centri abitati, di gridare la propria condizione in caso di incontro con un’altra persona.
Una malattia appesantita dal senso di colpa che tutti riversavano sull’ammalato. La lebbra era la più terribile delle punizioni di Dio. Nessuna pietà per i lebbrosi, nessuna pena, solo fastidio e paura nei loro confronti. Una malattia che isola, un cancro dell’anima. Il breve racconto di oggi è un gioiello di sfumature. Il lebbroso ha fiducia in Gesù, si avvicina a lui con confidenza, con cautela, con umiltà. È l’unico caso, nel vangelo di Marco in cui un ammalato si presenta da solo. E non chiede la guarigione, ma la purificazione. In lui è più forte il desiderio del riscatto sociale che del tornare sano. Così per noi: ciò che uccide è la solitudine, non il male fisico. Gesù ha compassione, diversamente da tutti gli altri. Sente il patire del lebbroso. E lo tocca.
Il nostro Dio
I devoti del tempo (e di oggi) dividevano la realtà in due categorie: nella luce e nella purezza c’era Dio e tutti i bravi ragazzi, far cui loro, ovviamente. Dall’altra parte la tenebra, l’impurità e tutti gli altri. Che Dio tocchi un lebbroso è fuori da ogni immaginazione. Una provocazione infinita. Eppure è questa la grande novità, la conversione da accogliere, la follia già espressa nel battesimo, quando il Figlio si è messo in fila con i peccatori. Dio si sporca le mani. E non è mai il buio che entra in una stanza, ma la luce che esce dalla finestra a rischiarare la notte. E così accade: il puro contagia l’impuro e lo guarisce. Da ogni male, da ogni solitudine, da ogni peccato, da ogni impurità siamo guariti. Ma…
Fastidio
Il tono cambia improvvisamente. Gesù sembra essere un’altra persona: si scalda, ammonisce e intima, è evidentemente infastidito. Deve tacere, il lebbroso, star zitto, andarsene, farsi visitare dai sacerdoti per essere riammesso nella comunità, come previsto dalla Legge che Gesù non ignora né snobba.
Ma il lebbroso disubbidisce, esagera, sbraca. Al punto che Gesù non può più entrare in una città. Dalla compassione alla rabbia, che cosa è successo?
Guru
Gesù chiede al lebbroso guarito il silenzio.
Non vuole passare come un guaritore, come un santone, come un guru.
Come può invitare la gente ad ascoltare la sua Parola e la novità del Regno se la folla lo cerca solo per risolvere i proprio problemi? Come potrà gestire la folla che chiede a Dio guarigione e non certo conversione? Come potrà far capire alle persone il senso profondo della vita se questi pensano già di conoscerlo e chiedono a Dio, eventualmente, di adeguarsi?
Allora come oggi è questo il dilemma che attanaglia Dio: provare compassione, certo, e intervenire, ma senza diventare il Dio fantoccio che portiamo nel cuore, il Dio a nostro servizio.
Testimoni
Leggendo questa pagina, mi è venuto in mente padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un’isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all’inumanità della malattia.
Padre Damiano morì a Molokai, facendo rinascere la dignità dei lebbrosi, dando loro fede, speranza, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo.
Costretto a confessarsi urlando i propri peccati ad un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
Sulle pagine della stampa internazionale, dopo la sua morte, finirà un osceno articolo di un polemista inglese, che insinuava l’idea che la lebbra padre Damiano l’avesse contratta con rapporti sessuali, facendo diventare un truce personaggio il santo dei lebbrosi.
Letto l’articolo, dal suo letto di malattia (aveva la tubercolosi), il grande scrittore Stevenson, di fede anglicana, (L’isola del tesoro, Dottor Jekill e mister Hyde) inviò una lettera aperta a tutti i quotidiani inglesi dicendo che chi oltraggiava la memoria di padre Damiano “era rimasto immerso ingloriosamente nel suo benessere, seduto nella sua bella camera (…) mentre padre Damiano, coronato di glorie e di orrori, lavorava e marciva in quel porcile, sotto le scogliere di Kalawao