Oggi inizia la Novena al nostro Santo Padre Fondatore San Paolo della Croce. Sulle pagine fb troverete un pensiero per ogni giorno per riflettere e pregare. Qui pongo un articolo del P. Lippi che ritengo interessantissimo, anche se richiede una attenta riflessione, per conoscere la spiritualità di Paolo della Croce.
La spiritualità di San Paolo della Croce
Non sappiamo come Paolo abbia avuto tra le mani il grosso volume delle opere del Taulero, che ancora si conserva. Esso era stato pubblicato a Macerata, in latino, nel secolo precedente. Paolo lo lesse per la prima volta, probabilmente nel 1748, all’età di cinquantasei anni.
Giovanni Taulero, domenicano tedesco vissuto nel secolo XIV, appartenente al gruppo di teologi mistici della scuola Renana, era un autore discusso. Tuttavia insigni teologi e santi lo avevano validamente difeso. Taulero non è principalmente uno speculativo, ma un santo. La sua ambizione non è quella di insegnare dottrine meravigliose, ma di santificarsi e santificare. La pratica non è mai separata dalla teoria. E non si tratta di una pratica tendente a fare opere apprezzabili dagli uomini, ma tendente a fare spazio all’azione dello Spirito di Dio.
Dal Taulero Paolo ricava soprattutto la dottrina riguardante “il fondo dell’anima”. Entrando nel proprio fondo, l’anima ha la percezione di Dio nella forma più pura che si possa avere. Ivi risuona la sua testimonianza quando ogni altra voce tace. È necessario che tutte le facoltà cessino di operare perché si possa ascoltare Dio in questo fondo, anche se è vero che le azioni delle facoltà ricevono forza da esso. Questa percezione la si può avere, forse, solo per qualche istante, ma quando la si ha, è come se si vivesse già nell’eternità. Nel fondo dell’anima abita Dio con la sua luce increata.
Paolo chiama il fondo assai liberamente “suprema parte dello spirito” (L I,118), “santuario dell’anima” (L I,538), “apice della mente” (L II,731), “fondo o centro dell’anima” (L II,471). Ad esso non possono accostarsi né gli angeli cattivi né quelli buoni, ma l’anima è sola col suo Dio. Così ne scriveva ai suoi religiosi in una circolare del 1750: “Gesù, che è il divino Pastore, vi condurrà come sue care pecorelle al suo ovile. E qual è l’ovile di questo dolce, sovrano Pastore? Sapete qual’è? È il seno del divin Padre; e perché Gesù sta nel seno del Padre, così in questo seno sacrosanto, divino, Egli conduce e fa riposar le sue care pecorelle; e tutto questo sopraceleste, divino lavoro si fa nella casa interiore dell’anima vostra, in pura e nuda fede e santo amore, in vera astrazione da tutto il creato, povertà di spirito e perfetta solitudine interiore; ma questa grazia sì eccelsa si concede solamente a quelli che studiano di essere ogni giorno più umili, semplici e caritativi” (L IV,226).
La lettura del Taulero produceva in Paolo straordinarie risonanze. Sentiva una profonda sintonia con lui, si commoveva anche soltanto al nominarlo, pensando ai suoi insegnamenti.
Il tutto e il niente
Assai prima di conoscere il Taulero, Paolo insiste sulla presentazione della creatura come un niente o “un orribile nulla” e di Dio come “il Tutto”. “Ritorni a buttarsi nel suo niente, -scrive alla Grazi nel 1741 – a conoscere la sua indegnità e da questa cognizione ne ha da nascere una maggior fiducia in Dio” (L I,267). E nel 1740 aveva già scritto alla Bresciani: “Chi vuol trovare il vero tutto che è Dio, bisogna che si butti nel niente. Dio è quello che per essenza è quello che è: “Io sono colui che sono”. Noi siamo quelli che non siamo, perché per quanto scaviamo a fondo non troveremo altro che niente, niente; e chi ha peccato è peggio dello stesso niente, perché il peccato è un orribile nulla, peggio del nulla” (L I,471).
Motivazione dell’invito ad annichilarsi è, per Paolo, sia la condizione di creatura, sia l’esempio della kenosi del Figlio di Dio. Nell’accentuazione confusionaria e permissiva della benevolenza di Dio che caratterizza la nostra epoca non è facile percepire l’elemento dell’infinita distanza fra il Creatore e la creatura che Paolo manifestava anche con la semplice espressione con cui si riferiva a Dio: “Sua Divina Maestà”. Si tratta di una distanza morale che affonda le sue radici nella distanza metafisica. Paolo sintetizza il suo pensiero a proposito di tale distanza con le seguenti espressioni: “Per essere santo ci vuole una “N” e una “T”. Chi cammina più di dentro indovina il significato, ma chi non è ancora entrato in vera profonda solitudine, non sa indovinarne il significato. Ed io soggiungo: la “N” sei tu che sei un orribile “nulla”; la “T” è Dio che è l’infinito “Tutto” per essenza. Lascia dunque sparire la “N” del tuo niente nell’infinito “Tutto” che è Dio ottimo massimo ed ivi perditi tutto nell’abisso dell’immensa Divinità. Oh che nobile lavoro è questo” (L III,447).
A padre Pietro Vico, maestro dei novizi al monte Argentario, scriveva: “Non v’è da temere nessun inganno purché vi sia e si accresca la cognizione del proprio nulla avere, nulla sapere, nulla potere e che, quanto più si scava, si trova anche più l’orribile nulla, per quindi lasciarlo sparire nell’infinito Tutto” (L III,450). E ad Agnese Grazi: “Non v’è cosa che piaccia più a Dio quanto l’annichilirsi e abissarsi nel nulla e questo spaventa il diavolo e lo fa fuggire… Per prepararsi alla battaglia ed essere armata dell’armatura di Dio non v’è mezzo più efficace che l’annichilirsi e annientarsi davanti a Dio, credendo fermamente di non essere atta ad uscirne vittoriosa se Dio non è con lei a combattere, onde deve gettare questo suo nulla in quel vero tutto che è Dio e con alta fiducia combattere da valorosa guerriera, stando certissima d’uscirne vittoriosa” (L I,150).
Nel 1768 scrive alla Calcagnini, con grande tenerezza di espressioni: “Standosene in quel sacro deserto interiore, ivi lasci sparire il suo vero nulla nell’infinito Tutto e riposi in Gesù Cristo nel seno del dolcissimo Padre come bambina, succhiando il latte divino alle mammelle sacratissime dell’infinita sua carità. E se l’amore la fa dormire di quel mistico sonno che è l’eredità che il Sommo Bene dà in questa vita ai suoi diletti, lei dorma pure, che in tal sacro sonno diverrà sapiente della sapienza dei santi” (L III,815).
Morte mistica e divina natività
Paolo della Croce deve al Taulero la nozione di “divina natività”. La nozione di “morte mistica” l’aveva maturata per conto suo fin dal tempo del Diario, anche se in esso non si trova esplicitamente questa espressione. Lui preferiva allora “il totale staccamento da tutto il creato”, comprese le consolazioni spirituali. Scrivendo, nel 1734, alla Grazi, le dice: “Oh mia figlia! Fortunata quell’anima che si stacca dal suo proprio godere, dal proprio sentire, dal proprio intendere! Altissima lezione è questa; Dio gliela farà imparare se lei metterà il suo contento nella croce di Gesù Cristo, nel morire a tutto ciò che non è Dio nella croce del salvatore!” (L I,107).
L’espressione “morte mistica” era assai in uso presso i quietisti. Paolo, però, la usa interpretandola vitalmente all’interno della propria dinamica interiore, rigorosamente ortodossa e responsabilizzante. Dopo il 1748, la dottrina della morte mistica, collegata con quella della divina natività, ritorna continuamente nei suoi scritti. Scrive, ad esempio, a Lucia Burlini nel 1751: “Tutta umiliata e riconcentrata nel vostro niente, nel vostro niente potere, niente avere, niente sapere, ma con alta e filiale confidenza nel Signore, vi avete da perdere tutta nell’abisso dell’infinita carità di Dio che è tutto fuoco d’amore… Ed ivi in quell’immenso fuoco lasciar consumare tutto il vostro imperfetto e rinascere a nuova vita deifica, vita tutta d’amore, vita tutta santa; e questa divina natività la farete nel divin Verbo Cristo Signor nostro… Sicché morta misticamente a tutto ciò che non è Dio, con altissima astrazione da ogni cosa creata, entrate sola sola nel più profondo della sacra solitudine interiore, nel sacro deserto…” (L II,724-725).
Per due secoli si è cercato un piccolo trattato sulla morte mistica che Paolo diceva di aver inviato a diverse persone. Nel 1976 ne è stata scoperta una copia nel monastero delle monache passioniste di Bilbao in Spagna. Negli anni seguenti ne furono trovate altre due copie. Il trattatello è intitolato “Morte mistica ovvero olocausto del puro spirito di un’anima religiosa“. Si può dividere in due parti. La prima contiene la dottrina generale sulla morte mistica. La seconda applica tale dottrina alla pratica dei singoli consigli evangelici nella vita religiosa. Gli studi che sono stati fatti rilevano che il testo, così com’è, non sembra stilato da san Paolo della Croce. La sua stesura sembra dovuta a un collaboratore redazionale, che fu probabilmente il padre Giammaria Cioni. La data di composizione più probabile si colloca negli anni 1760-1761, anni di grandi prove per Paolo, a causa del fallimento definitivo della richiesta dei voti solenni e a causa delle malattie di cui soffriva.
La morte mistica è una vera immersione battesimale. Le corrisponde molto bene l’attuale spiritualità del battesimo e quella liturgica del mistero pasquale. Anche la spiritualità dell’immersione e della croce gloriosa, come viene oggi sviluppata dal movimentò neocatecumenale, è fondamentalmente la stessa cosa. Paolo della Croce intuiva queste realtà sulla base dei testi scritturali e delle esperienze dei mistici cristiani che lo avevano preceduto.
P. Adolfo Lippi