Risposte del prof. Giulietti alle domande dei Tendopolisti
Riportiamo il dibattito seguito alla relazione del prof. Giulietti, sul tema “Nella strada della giustizia è la vita”
D – Mi è parso di poter capire che luogo comune di tutti questi cinque furti che lei ci ha spiegato, possa essere la frustrazione, come percezione di una certa inadeguatezza e, in qualche modo, di una certa impotenza… le domando: secondo lei, due conseguenze di questo atteggiamento possono essere, da una parte, la rassegnazione, e dall’altra, al contrario, l’esaltazione? Le chiedo questo: non è forse questa creatività, questa capacità che ci è data da Dio, da mettere a frutto, a poter generare questi due aspetti? Grazie
D – Premetto che io ho un’estrema fiducia, sia nei giovani che nella loro volontà di risolvere bene le cose… la domanda mia era questa, comunque sono arrivato a una certezza… ho potuto constatare che il confronto, il più delle volte, non si vuole, insistere su questo, personalmente, ha portato a delle conseguenze disastrose, tipo la chiusura delle pastorali giovanili, essere messi fuori dalla parrocchia, e anche dai gruppi… una risposta su questo, grazie
D – Prima ci ha parlato dell’inadeguatezza del linguaggio dei giovani, della mancanza di termini specifici, della povertà del vocabolario, e dei modi di scrivere… le faccio una domanda dal punto di vista degli educatori, come si deve agire di fronte a questa povertà… soprattutto il problema è: parlare in un modo, tra virgolette, più complesso, o adeguarsi al modo di esprimersi dei giovani, rischiando però poi di non risolvere mai questa povertà?
R – Io credo che il senso di impotenza sia una caratteristica dei nostri tempi, nel senso che in questo mondo così globalizzato, in cui le fonti delle decisioni sono sempre più lontane dalla gente, è naturale sentire che personalmente si può fare poco. Ok? Questa è una caratteristica dei nostri tempi, tanto è vero che i giovani oggi non è che hanno rinunciato ai sogni, ma li tengono nel cassetto.
Cioè, hanno grandi ideali, grandi idee… però poi per questa impotenza si limitano a tenerli da parte, e poi nella vita agiscono in maniera molto più cinica, cioè sempre più adeguandosi all’andazzo. Io credo che di fronte a questa difficoltà oggettiva, ci sia una via d’uscita, consistente in questo: innanzitutto è giusta la creatività, nel senso che una generazione come la vostra, di giovani, dovrebbe, come ho detto all’inizio… che ha un compito storico, cioè i problemi di questo tempo, i nuovi problemi di questo tempo, sono i giovani che devono risolverli. Il pensiero vecchio, non è adatto ai problemi nuovi.
Quando noi diciamo che la classe politica in Italia è vecchia, non abbiamo niente contro i vecchi, ci mancherebbe, gli vogliamo molto bene, ma diciamo c’è un pensiero vecchio, abbiam bisogno di un pensiero nuovo. Quindi io credo che questa consapevolezza, che siete proprio voi ad essere chiamati a risolvere i problemi… Giovanni Paolo II diceva “Essere i nuovi costruttori della civiltà dell’amore”, per usare un linguaggio… però è questo il concetto di fondo, cioè di fronte a questi grandi problemi, nuovi, del nostro tempo, ci vogliono i pensieri nuovi.
Ma questo però chiede non solamente creatività, ma chiede anche comunità. Diceva Martin Luther King: “Se sogno da solo, sono un sognatore; se sogniamo insieme, cominciamo a cambiare la realtà”. Allora, c’è bisogno, con i giovani, coltivare il pensiero nuovo, ma anche, insieme, cominciare a capire come renderlo vero, come renderlo attuale; magari a partire da piccoli comportamenti, quindi non è vero che siamo impotenti, è vero che è più difficile influire oggi sul mondo, ma è anche vero che abbiamo sempre delle possibilità, e direi delle possibilità nuove per poterlo fare. A Marco il discorso della difficoltà del confronto: il confronto è una fatica. Lo è sempre stato, forse lo è oggi in maniera particolare, perché oggi la distanza tra le generazioni è molto grande. Tra la mia nonna, che ha 92 anni, e la sua nonna, c’era una distanza, culturale, sociale, molto minore di quanto c’è tra me e lei; molto minore. Oggi in cinque anni cambia una generazione! Voi che fate gli educatori, quando guardate i vostri ragazzi, dite “ai miei tempi non era così”; ma i vostri tempi erano cinque anni fa, non cinquanta anni fa, non cento anni fa. Quindi oggi il confronto è più difficile. Questo non possiamo non far finta che non sia vero, è più difficile.
Però è più necessario. Allora penso che sia importante educarsi ad essere persone capaci di reggere il confronto, che è difficile, che a volte è violento, però è solo nel confronto che si fanno crescere le realtà. È solo tramite l’incontro tra le generazioni che il mondo va avanti. È vero che a volte si può parlare di questo confronto… però penso che valga la pena di avere un confronto aperto, anche cercando di entrare nel pensiero degli altri. Cioè, il confronto vero, il dialogo vero, non è sostenere in maniera univoca le proprie posizioni, ma cercare di entrare anche “nelle scarpe” dell’altro, cercare di capire perché l’altro pensa quelle cose, perché quell’altro fa fatica ad accettare quello che io propongo. È in questa dialettica, in questo dialogo tra le generazioni che cresce il mondo. Come dicevo prima, che ci hanno rubato il senso del tempo, vuol dire che non sono nemmeno capace di mediare, invece il progresso si ha sempre in questo incontro fecondo tra tradizione e il rinnovamento. Così come per il linguaggio dei giovani.
Ma forse voi sapete che… quando si cerca di far apprendere qualcosa, bisogna fare i conti con quella che si chiama, in gergo tecnico, la discrepanza ottimale. Cosa vuol dire? Se io voglio che un ragazzo che salta tre metri, ne salti quattro, ho bisogno di fargli passare 3 e 5, 3 e 10, 3 e 15, 3 e 20, e capire che quei 5 centimetri sono il suo progresso, il massimo che può ottenere, e puntare su questo. Se io punto sul progresso inferiore, lo faccio crescere poco; se punto sul progresso superiore, non lo faccio crescere per niente… allora l’educatore è colui che da una parte si rende conto di quali sono le possibilità, dall’altra parte propone sempre un passo avanti, sa intuire qual è il passo avanti giusto. Qual è la misura di progresso che può chiedere. L’educazione è questo continuo adeguarsi e proporsi. Non si educa se ci si adegua e basta. Educare è far crescere, far germogliare le possibilità che ognuno ha dentro di sé. Dall’altra parte non si educa se non si tiene conto di chi si ha davanti, perché alcuni ti propongono delle cose che quella persona concreta non potrà mai raggiungere. Questa è l’arte, e anche la spiritualità dell’educare: riconoscere il valore che si ha davanti, e il valore del progetto che io propongo. In questo senso, c’è sempre un dialogo tra questi due elementi. E allora anche dal punto di vista del linguaggio, non si può pretendere che nei ragazzi entrino chissà quali ragionamenti, però occorre sempre fare la fatica di aiutarli a capire sempre ciò che vivono. Se voi verrete a Loreto con i vostri giovani, come spero, non accontentatevi di quei momenti, cioè parlatene, cercate di capire, dare un nome alle emozioni, dare una continuità ai contenuti, elaborare su questo continuamente, far capire le cose, dare unione alle cose.
D – Oggi c’è la tendenza nei giovani a non scegliere, a non prendere una posizione, e questo li fa sentire più liberi, non vincolati, non legati a nessun carro, mentre noi sappiamo che una scelta chiara, concreta, ti realizza pienamente; cosa ne dice?
D – Lavorando nella scuola, ho notato nei ragazzi una mancanza di interessi, di stimoli, di reazioni… volevo chiederle appunto quanta di questa mancanza dipende dalla persona e quando dalla società, dalla famiglia, dalle istituzioni…
D – Io volevo partire da una sua considerazione, lei ha detto che il tempo viene rubato, anche per nostre responsabilità, per le scelte che noi facciamo; però ecco, c’è anche un altro aspetto, che è quello di chi aspetta ancora di scegliere riguardo la propria vita, di effettuare le scelte fondamentali. Volevo una sua riflessione anche sul tempo di Cristo, in fondo nell’ambiente, nel tempo nel quale viveva, era considerato anche un disadattato socialmente, perché è rimasto fino a trenta anni con la madre, ha fatto… quel che faceva, si, lavorava, forse, per quei tempi… ma poi ha saputo cogliere quei tempi di Dio, che forse era in comunicazione col Padre, e in tre anni poi ha portato avanti tutta quella missione, quindi ecco, una considerazione anche su quello, e sull’ansia che a volte, molti, fanno delle scelte proprio… facendosi prendere, così, dal desiderio, dalla volontà di risolvere quelle situazioni anche scappando da casa, e fanno dei matrimoni fallimentari che si risolvono in pochi mesi…
D – Si parla sempre di relativismo rispetto a tutto ciò che è di fuori dalla Chiesa, ma io credo che nei nostri contesti comunque ci sta… faccio un esempio: vocazioni mezze e mezze, non si frequentano i sacramenti… (altre situazioni, n.d.r.) quando noi come Chiesa inizieremo ad investire un po’ meno sul facci vedere, e un po’ più sull’educare le persone a scegliere, ad aiutare le persone a diventare adulte…
R – Partendo dalla difficoltà di scegliere oggi, che è oggettiva, no? Ma anche sull’idea che la vera libertà sia non scegliere. La mia libertà sia mantenere aperte tutte le possibilità. Questo è davvero figlio di una situazione in cui noi abbiamo tantissime possibilità. Forse nessuna generazione come la vostra ha avuto di fronte tante possibilità per la propria vita. Pensate solamente ai percorsi universitari; oggi ne sono una quantità enorme, che non ci sono mai stati… ma pensate anche a tante cose che oggi uno può fare, in tanti campi della vita. Oggi abbiamo la sensazione che qualsiasi scelta noi facciamo comporta la rinuncia a un mondo di possibilità.
La scelta oggi provoca un disagio interiore, molto maggiore di quello che avevano i nostri nonni, che avevano una vita già tracciata davanti. Te facevi il contadino? Novantanove su cento quella era la tua strada, senza grandi possibilità, era quella e basta. Oggi invece noi sentiamo che qualsiasi scelta facciamo ci precludiamo un universo di possibilità. In questo contesto culturale, conta davvero molto la percezione chiara che la scelta è su un milione di possibilità, cioè io mi gioco come persona solo quando scelgo. Come se mi butto in acqua e nuoto, se non mi butto non nuoto. Il luogo vero di realizzazione delle mie possibilità non è rimanere accanto a ognuna di esse, ma prenderne una e buttarmici dentro. Questa idea è culturalmente difficile da far passare, perciò abbiamo bisogno di coltivarla profondamente dentro di noi.
E questa si coltiva anche guardando le persone che hanno scelto e si sono realizzate, e sono poche oggi, in cui c’è tanta gente che non sceglie; abbiamo bisogno di trovare qualcuno che avendo scelto ha raggiunto la pienezza di sé, perché questo agire sulle teorie, affascina, no? La mancanza di stimoli e di reazioni dipende da tutti e due, abbiamo detto che il contesto di oggi fa leva sugli aspetti più superficiali che ci caratterizzano; non è che non ci sono i bisogni dell’uomo, ci sono sempre. Non è che i ragazzi oggi non hanno quei bisogni di relazione e realizzazione, di maturazione di un’identità. Sono sempre quelli che ci portiamo dentro, di amare, di essere amati. Però in questo conteso questi bisogni vengono realizzati ad un livello sempre più superficiale, per cui si incontrano risposte sempre più epidermiche rispetto alla persona. Allora, i ragazzi in questo fanno un po’ come Pinocchio, si lasciano andare. C’è bisogno di qualche pappagallo, che dall’alto del ramo rida di questo, e faccia capire ai ragazzi che i loro bisogni non sono soddisfatti solo da quelle cose lì, ma ci sono altre risposte che vanno più in profondità.
Alle volte siamo poco capaci di fare i pappagalli, abbiam bisogno allora di aiutare questi ragazzi a farsi delle domande a un livello più profondo, questa mi pare una parte importante dell’educare… però bisogna sapere, quando si pongono queste domande… essere consapevoli quando le risposte dei ragazzi non vanno bene, e questa mi pare la povertà culturale della scuola. Cioè che, alle volte ci si accontenta di trasmettere nozioni, e non ci si confronta invece con i bisogni profondi dei ragazzi, e anche con le risposte che a volte a questi bisogni sanno dare. Il discorso sul tempo… mi viene da fare una considerazione. Quando parliamo di scelte, dovremmo renderci conto che oggi i giovani scelgono moltissimo, non è vero che i giovani non scelgono, i giovani scelgono moltissimo, perché in questo mondo con tante opportunità non è questione di scegliere, non solo ci sono delle scelte importanti, di tipo scolastico, lavorativo, ma anche tantissime altre scelte che i giovani fanno. Educare alla capacità di scegliere, diventa fondamentale. Oggi non si può stare al mondo se non si sa scegliere. E questa preoccupazione, diremmo così vocazionale, non può arrivare solamente al momento in cui devo decidermi: mi faccio prete, mi faccio frate, suora o che cosa.
Questa è la vocazione, diciamo così, dello stato di vita; ma quante vocazioni i giovani incontrano nel loro percorso? E molto spesso, di fronte a queste vocazioni, i giovani sono soli… se io vado dal parroco a dire “non so se farmi prete”, mi prende “eh, facciamo un discorso importante”… se vado a dire “non so che facoltà scegliere”, dice “eh, beh, parlane con…”, cioè, voglio dire, noi ci prendiamo cura dell’aspetto vocazionale, quando ormai è troppo tardi. Ma facciamo fatica ad entrare nella dimensione vocazionale della vita cristiana, perché quando scegli l’università questa è una risposta a una vocazione; ci sarà una chiamata; a Dio interesserà qualcosa se scegli medicina o ingegneria, o no? Io penso di si, e allora per vincere quest’ansia, di fronte alle scelte della vita, bisogna abituarsi a scegliere da cristiani sempre, quindi a confrontarsi con le tante scelte di vita, a partire dall’intuizione che c’è un progetto dentro di me e accanto a me. E questo progetto non è che arriva solamente a trent’anni, quando devo scegliere lo stato di vita, ma è presente in tutte le fasi della mia crescita. È importante imparare a sentire questa dimensione vocazionale della vita. Sul discorso della promozione, dell’educazione… guarda, io credo che oggi non si possa contrapporre questa cosa qui, nel senso che la Chiesa è chiamata ad un lavoro personale, educativo, nei gruppi, nelle parrocchie, di approfondimento personale, no? Ma è anche chiamata a un lavoro culturale. È anche chiamata ad aiutare questo nostro paese a non smarrire le vie dell’uomo. Cioè noi non possiamo accontentarci di quello che facciamo nei nostri gruppi. Ci formiamo, ci sentiamo amici del Signore; questa è una cosa molto importante, però non possiamo nasconderci che è dovere della Chiesa anche evangelizzare la cultura, cioè creare nella cultura del nostro paese quell’atteggiamento verso la vita che sia in grado di aiutare tutte le persone a diventare più umane. Anche perché poi l’annuncio della fede cade su questo terreno. Allora, io direi che dobbiamo investire nella promozione e nella preparazione. I due rami della missione. Nel percorso di tre anni dell’Agorà dei giovani italiani, quest’anno che è trascorso è stato dedicato all’ascolto, i prossimi due anni li dedicheremo il primo, all’annuncio del Vangelo nella vita delle persone, il secondo all’annuncio del Vangelo nella cultura; sono due dimensioni irrinunciabili.
“Se la fede non diventa cultura – diceva Giovanni Paolo II – se non diventa bisogno di vita, proposta di valori, sogno per l’aspetto di un paese, di una comunità, è una fede che vive nel privato, nel chiuso, e che non porta quei frutti che può portare”. Se guardiamo la storia della Chiesa, la grande storia della Chiesa, nel capire le persone ha dato grandi frutti, sociali, economici,politici, culturali, artistici. Allora sono due binari dell’evangelizzazione che non possono trascurarsi. Non possono vivere in maniera separata l’una dall’altra. Allora, dobbiamo cercare di non perdere l’uno per l’altro, di non sbilanciarci troppo da una parte rinunciando all’altra. Però attenzione, di non fare una proposta cristiana… la proposta cristiana è anche una proposta culturale, sociale, perché la fede cristiana germina in questi frutti, e diventa bene per tutti. Per chi ci crede, ma anche per chi non ci crede.